Gli "Amputati" si difendono
Tratto da:
ECHI D'ALTROVE di Fulvia Cariglia


Raggruppati in libere associazioni ideali o addirittura in forme di aggregazione costituite, madri e padri d'Italia non sottostanno ad una gestione esterna della loro speranza, o convinzione, che rimanga acceso l'interruttore della luce nella quale immaginano siano immersi i loro figli scomparsi. Sono gli innaturali superstiti di famiglie stroncate da incidenti o malattie vecchie e nuove, da una fatalità che ignora il rispetto della graduatoria anagrafica, dal destino se vogliamo, una parola che può essere strapiena di significati o non averne nessuno. Ma c'è invece una parola che, se non mancasse dal vocabolario, un senso preciso l'avrebbe per queste persone che ne vanno alla ricerca, e li rappresenterebbe tutti quanti sono, innumerevoli. Coniugi che se ne vanno lasciano vedovi, genitori che muoiono lasciano orfani, ma figli che precedono nella tomba lasciano sopravvissuti per i quali neppure c'è un lemma che li definisca sul dizionario; come se perfino il lessico rifiutasse di prender atto, e così rendere giustizia, ancorché solo linguistica, ad un evento negato dal cuore come il più ingiusto in assoluto. E troppo poco deve essere sembrata l'arcaica circonlocuzione "orbato/a di un figlio" per concepire una privazione che non è limitata soltanto alla vista, ma riguarda l'interezza di un corpo che, pure, è costretto a respirare. Ostinatamente avversi all'anomala condizione di scampati, e tuttavia consapevoli di doverla accettare come immutabile, molti di loro si sono dati una "voce" che li definisse: amputati si fanno chiamare, e deve essere chiaro che l'amputazione cui alludono è assai più grave di quella degli arti o dei sensi. (8)
Ma dall'aver preso coscienza che la loro vita non potrà mai più tornare ad essere quella di prima, che il futuro dovrà essere affrontato con quella pena costantemente conficcata nell'anima, che per una ragione o per l'altra è necessario tirare avanti ma con un'attrezzatura caratteriale e morale nuova, nasce un segnale di accettazione della propria sopravvivenza. E' solo il primo passo, ma non è poco e, anzi, farlo costa un'immane fatica, un lavoro interiore di tale conflittualità che forse possono comprendere soltanto coloro che ci sono passati. In questo l'associazionismo citato svolge un importante compito di mutuo soccorso e, oltre a supportare l'"amputato" nella sua prima difficilissima fase, garantisce che ogni problematica connessa al luttuoso evento è pienamente condivisa dal gruppo in una reciproca partecipazione rasserenante. L'impegno prioritario è quello di instaurare, ampliare se possibile, mantenere il collegamento fra quanti sanno veramente che cosa voglia dire quella triste esperienza e, già sollevati dal solo poterne parlare con chi li comprende, si rendano disponibili ad uno sforzo per formulare risposte individuali ai loro assillanti perché.
Va da sé che lo spiritismo trova in quest'ambito un fertile humus, incentivante della pratica e sostenitore della sua dottrina ma, per quanto la situazione degli aderenti non possa certo essere considerata fra quelle che favoriscono la fredda obiettività, non necessariamente produce incontrollati fanatismi. La ricerca del fenomeno assume anzi proprio in questi casi la qualità della diligenza personale, nello studio e nell'applicazione delle tecniche, e molto positivo è lo zelo nel sorvegliare l'intromissione di falsi medium con interessi economici. L'"assistenza spiritica", insomma, diventa una sorta di servizio operato vicendevolmente fra gli interessati e, se non potremmo giudicarne lo svolgimento con incondizionata accondiscendenza, dobbiamo ammettere che saremmo di fronte al minore fra gli eventuali mali prodotti dalla dipendenza da "contatto". Parrebbe, questa del compromesso a fin di bene, la posizione della Chiesa che, pur vietando le evocazioni spiritiche e condannando chi tenta di metterle in atto, è immancabilmente rappresentata in tali ambienti da sacerdoti, i quali -dicono- sono tenuti alla cura delle anime anche e soprattutto se contravvengono alle disposizioni cattoliche.
L'informazione corre attraverso la moderna rete telematica, ma anche l'antica e sempre efficiente rotaia del passaparola; si alimenta in riunioni organizzate ad hoc, presso case private o circoli ristretti, ma anche in frequentatissimi congressi specifici ove le testimonianze personali si affiancano alla parola del clero e ad altre con pretese scientifiche; si proietta all'esterno a mezzo di una editoria sempre più prolifica, che pubblica neo scrittori divenuti tali perché avevano qualcosa da raccontare della loro storia che andava oltre il normale iter di un genitore rassegnato perché altro non può fare. Sono i libri della speranza, forse nati dall'esigenza di uno sfogo o forse dalla generosità di far parte gli altri della propria rinascita, ma quasi sempre si traducono in letture che portano a riflettere sull'eventualità che spariti per sempre è un'espressione da rivedere; sono i libri della fiducia, firmati da gente che non potrebbe mentire senza profanare la santità delle sue memorie e, quindi, degni di indiscutibile credito per chi sia accomunato nelle sensazioni descritte e abbagliato dalla tranquillità raggiunta. E l'aspirazione ad un'evidenza scientifica si riduce a ben poca cosa quando, sfogliando uno dopo l'altro i volumi di tale biblioteca, ci si accorge di tante piccole evidenze come mattoni che potrebbero ricostruire la casa-rifugio della propria disperazione.
Si scopre così che non era un sogno dettato dalla follia, ma che è possibile risentirla quella voce amata, forse anche rivedere quel volto: qualcuno c'è riuscito e certo non è pazzo se ha anche scritto un libro; si capisce che non c'è bisogno di essere dotati medium per ottenere l'agognata comunicazione tante volte vagheggiata: bastano l'amore, tanta fede e un po' di costanza e_ se ce l'ha fatta lui, ce la potrò fare anch'io; ci si accorge, cioè, come per illuminazione, che della morte si era fino ad allora considerato l'aspetto peggiore per ignoranza di troppe cose della vita, compresa quella di un'infinita letteratura di messaggi provenienti dall'aldilà. Ed è così che la messaggistica ricevuta per ignote vie, talora di buon livello culturale ed etico, aumenta progressivamente; a "firmarla" sono in tanti, fra spiriti guida e profeti maggiori o minori, ma nessuna delle più affascinanti declamazioni filosofiche vale quanto una sillaba, un breve cenno al sé di un tempo, da potersi attribuire a quegli ancor giovani disincarnati. Talvolta non si tratta che di forzati collegamenti imposti dal desiderio di trovarli, talaltra l'identificazione sembra più sicura e scalda il cuore, ma sempre quei "richiami" costituiscono oggetto di scambievole interesse in una sorta di rito collettivo che ambisce, non di rado riuscendovi, a trasformare inconsolabili superstiti in redivivi con una loro quiete.
Organizzati in proprio, ora sanno come difendersi dalla ciarlataneria che li aspettava al varco per approfittare del loro sconcerto; resi più forti dalla spiritualità che li pervade, possono difendersi da quell'abbandono al dolore in cui erano immobilizzati; rincuorati dagli esiti delle comunicazioni, proprie e degli altri, e dai comuni progressi, sapranno anche difendersi dai dubbi che qualche volta li assaliranno. Ma non potranno, come nessuno al mondo può, difendersi dall'inganno sotteso in ogni cosa ignota, e dal quale mai potremmo essere completamente al riparo tanto più in questo capitolo misterioso della nostra storia di uomini. Noi, da sempre investigatori indefessi dell'aldilà, diligenti ricercatori di ogni suo vago segnale, indagatori ingegnosi dei possibili metodi per conoscerlo, noi che ne siamo appassionati amatori, mai ne saremo i sicuri padroni.
Illuminante in questo senso la seduta descritta dal Fogazzaro nelle ultime pagine del più volte citato romanzo. E se la storia di Luisa è stata scelta qui quale filo conduttore della nostra argomentazione è perché se ne deve riconoscere l'insuperata attualità, sebbene ambientata nell'Ottocento.

(Pubblicato col permesso dell'Autore)

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LA SPOSA FEDELE
CAPITOLO  III DAL LIBRO:
LA LUCE E LA RINASCITA   (22-03-09)
Di Fulvia Cariglia

Poiché la morte è la sposa fedele,
che subentra all’amante traditrice

VINCENZO CARDARELLI
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Spendiamo tanto tempo, nel corso della nostra esistenza, indaffarati in cose che ci interessano limitatamente, talora lo sprechiamo lasciandoci trasportare da altre che non ci interessano affatto e, quando invece il tempo lo impieghiamo, facendo e strafacendo, ci comportiamo come se fossimo eterni: mai, o almeno così parrebbe, ne dedichiamo un po’ a prepararci per quell’appuntamento finale cui, senza esatto preavviso ma con indiscutibile certezza, saremo un giorno chiamati. Fino a qualche decennio fa, per giustificare tale imprevidente atteggiamento, si esaltava il pregio del fatalismo, oggi ricorriamo al termine rimozione perché abbiamo imparato ad assolvere ogni nostra manchevolezza riparando nell’inconscio, quasi questi non ci riguardasse.
Nella nostra cultura il morire ci appare talmente sgradevole che preferiamo convincerci non ci debba appartenere o, ancora più puerilmente, che competa solo ad altri; in ogni caso, ne trattiamo come di un’astrazione e talmente lontana da non richiedere “per il momento” alcuna organizzazione. Quel “momento”, come è noto, è considerato perennemente rimandabile. E, abilissimi come siamo nel rinviare il disbrigo di pratiche che non si confanno alla boriosa natura umana, nei nostri programmi di vita, spesso precisi ed elaborati con arte affinché alcuna evenienza ci colga di sorpresa, paradossalmente non riusciamo a trovare posto per l’evento già progettato e senza riserve dal naturale atto della nascita.
Tuttavia sappiamo in fondo al cuore, probabilmente in quella parte di esso –fantasticando un po’- dove risiedono le affascinanti paure, che un bel giorno la morte, quella nostra e non di altri, si presenterà. Sarà l’ultima espressione di questa vita e ne annuncerà l’annientamento o, piuttosto, sarà il ponte di passaggio ad un’altra forma di esistenza? Non sappiamo o, qualora supponessimo di saperlo, per ognuna delle due affermazioni dobbiamo ricorrere alla fede, spiritualista o scientifica che sia. Se infatti non è dato di provare la teoria della sopravvivenza dello spirito, neppure il pensiero materialista può garantire il disperdersi inconsulto di tutta l’energia che, amando e odiando, gioendo e soffrendo, in una parola vivendo, sprigioniamo dal nostro essere fino all’ultimo respiro. Un respiro che ci potrebbe trovare davvero impreparati, ovvero inutilmente spaventati.

Ingannati… da una morte ingannata

Chiesto ad un saggio orientale quale, di tutte le cose della vita, fosse la più stupefacente, egli rispose senza esitare: “Che un uomo, vedendo gli altri morire intorno a lui non pensi mai che anch’egli morirà”.
C’è qualcosa da correggere in quel generalizzato assunto per cui rimuovere l’idea della fine inevitabile sarebbe un’esclusiva della cultura occidentale ché, a ben guardare, la morte è temuta da tutti, orientali compresi. Non a caso gli Upanishad, commentari filosofico-religiosi al testo dei Veda1 completamente dedicati alla morte, si aprono con una attestazione assai esplicativa in proposito: “Molti non riescono neppure a udir parlare del passaggio nell’aldilà; molti, pur udendone parlare, non sanno intenderlo; una rarità è un maestro capace che sappia spiegarlo; una rarità chi, istruito da un esperto, giunga a conoscerlo”. Abita dunque a est o a ovest del globo la naturale avversione per un processo che non si conosce ma di cui sappiamo dovremo avere esperienza diretta: è la consapevolezza, cosciente o rimossa che sia, della fatale superiorità dell’ineludibile in rapporto al pur coriaceo istinto di sopravvivenza.
Ciò detto senza voler negare che in Occidente si possono ravvisare aspetti addirittura fobici del problema, che vanno dall’imbellettamento del cadavere all’evitazione di un linguaggio considerato funesto semplicemente perché comunica la realtà del morire e di quanto vi sta intorno. In questa società del bello a tutti i costi, per fortuna cromosomica o merito della chirurgia, non è accettabile neppure il deterioramento di un viso impallidito dalla naturalità dell’evento estremo e nominare parole che richiamino alla situazione, ingenerando pensieri scoraggianti, è ritenuto indice di eccessiva crudezza. Sarà dunque più delicato dire che quella persona, così ben ricomposta da sembrare sorridente, “ha posto termine alla sua vita” o che “ha chiuso gli occhi per sempre”, più ottimisticamente “che ha finito di soffrire”.
Generata da elementi di natura egocentrica, fra i quali il distacco dai beni materiali e la reticenza a lasciarne la fruizione ad altri, la freudiana negazione della morte è ben alimentata da fattori esterni che, pur di diverso carattere, sembrano concorrere a realizzarla pienamente. Ci riferiamo innanzitutto alle credenze nell’aldilà, un luogo adibito a perpetuare in qualche modo l’esistenza, nell’espiazione o nella beatitudine, ma pur sempre indicatore di continuità in quasi tutte le tradizioni religiose; in primis nel Cristianesimo, negatore per eccellenza della morte a merito dell’irrevocabile sconfitta da essa subita con la resurrezione di Gesù. Neppure il pensiero laico riesce ad estinguere del tutto la vita riducendola ai suoi confini biologici, se pensiamo ad un Foscolo che nella morte vede il totale annullamento e tuttavia affida ai sepolcri “confortati di pianto” la sopravvivenza di chi merita di essere ricordato per le opere e”l’eredità di affetti”.
La tendenza ad esprimere repulsione verso riflessioni sulla morte e sul morire, inducente dunque anch’essa alla negazione, sarebbe anche dovuta -secondo alcuni autori- alla carenza nel nostro tempo di una produzione filosofica e letteraria relativa. Superficialmente, infatti, in un’epoca in cui la morte truculenta fa tanta audience, scarsissimi sono gli sforzi culturali per proporzionare il concetto ai criteri di naturalità che ad esso sono propri e trattarne con la serenità di cui potrebbe essere infusa la discussione in argomento. Il sociologo James Whitcomb Riley faceva notare nel 1968 che “sessanta milioni di persone muoiono ogni anno, mentre cresce esponenzialmente il numero delle persone viventi..(le quali) hanno la possibilità di contemplare la loro morte, e un numero di persone sempre più grande sono colpite dal lutto. Per un fenomeno di tale ampiezza ed estensivo significato, la bibliografia della scienza sociale sulla morte e il lutto non produce oltre quattrocento titoli.”2
La morte è dunque in questo contesto una sorta di anomalia disturbante e, come tale, va allontanata dai nostri pensieri; in quanto esperienza di disordine e disgregazione della realtà ”è uno scandalo”3 e, pertanto, non si può permettere che interferisca nel nostro consolidato equilibrio. Rifiutata nel suo aspetto di fenomeno naturale, non è più l’elegante signora con la falce, ma “ una delinquenza, una devianza incurabile”4, è “il grande misfatto” come scriveva Italo Svevo in Senilità. Apparirebbe allora perdonabile che la mente, per difendersi dall’esplosione di sensazioni negative ch’essa provoca e reprimere in ogni modo la spiacevolezza delle immagini dolorose collegate, la neghi con tutte le proprie forze, fino a rimuoverla, in un inganno destinato a ritorcersi contro lo stesso ingannatore.
Sono qui ovviamente soltanto accennati i vincoli psicologici e le false risposte riferibili all’errato rapporto che abbiamo con il nostro scontato destino ultimo, esulando una disamina in tal senso dagli obiettivi di questo testo, che si propone invece di rilevare opportunità di più distese riflessioni in ordine al controverso tema della morte, tuttavia fascinoso al pari di tutti i misteri del consistere umano. In particolare si vuole da queste pagine dar voce a pareri opposti a quelli ricorrenti, affinché non venga accettata una connotazione della morte esclusivamente in termini ripugnanti così come più spesso avviene; ma, in special modo, affinché il tenebroso scenario di una tale morte non venga accolto passivamente, d’impulso, quale frutto reattivo e privo di un’analisi personale. Perché non è sicuro che la morte sia “bella” e “nostra amica”, come scriveva Chateaubriant, ma non è da sottovalutare la spiegazione dello scrittore francese a ricusarla tale: “non la riconosciamo perché ci si presenta mascherata, e la sua maschera ci spaventa”.
Stante le conseguenze talora patologiche di simile disconoscimento, un minimo impegno per sminuire il potere di quella maschera ci corre l’obbligo di assumerlo.
Va da sé che non vi è alcuna affermazione assoluta in quanto si va proponendo, ché chi scrive subisce delle medesime incertezze di tutti, ma non risulterà certo inutile quantomeno prendere atto di talune esperienze più “rilassanti” in tema, poco note nella loro effettiva sostanza e perlopiù promosse con toni favolistici se non, peggio, date in pasto a sensazionalismi da rotocalco. Se la paura della morte è soprattutto paura dell’ignoto –come è assai probabile- è rifuggendo l’idea del morire che se ne amplifica il senso dello sconosciuto e, con esso, la paura originaria; ciò che impone, prima di farsi coinvolgere in un simile ingranaggio a catena, almeno l’attenzione per un’alternativa possibile. “Gli uomini” –scriveva Bacone nei Saggi, secondo noi giustamente- “temono la morte come i bambini temono il buio; e come quella paura naturale dei bambini è accresciuta da fole e racconti, così è dell’altra”.
(…) (…) (…)

La morte… della paura

Il dato dell’annullamento della paura della morte è, come abbiamo anticipato in altro capitolo, quello che registra la percentuale più alta in tutte le ricerche sulle implicazioni postume all’esperienza di premorte. Indipendentemente dal grado di ansia preesistente nei confronti dell’estremo evento, se per umana incertezza o allarmante apprensione, tutti cambiano in positivo la loro relazione con la morte e quasi tutti dichiarano di non averne più paura. Questo tipo di approccio rimane saldo anche dopo moltissimi anni dall’evento NDE, che su questo aspetto viene percepito come privilegio di un’anticipazione auspicabile ed è sempre, conseguentemente, fonte di una maggiore serenità ed equilibrio psicologico nel corso dell’esistenza.
Nella loro indagine su 350 casi, Peter ed Elisabeth Fenwick hanno registrato sull’argomento specifico dichiarazioni di questo genere:

Di certo non ho più paura di morire (…) In un certo senso sono contenta perché ho potuto constatare di cosa si tratta.

Durante l’intera esperienza non ho mai avuto paura, e la sensazione che conservo da allora è una grande pace e la certezza che non dobbiamo temere la morte.

L’effetto di questa esperienza non si è attenuato durante la mia vita; se sono stata in punto di morte, allora non ho paura di morire quando sarà il momento. Aspetto con ansia quella meravigliosa gioia e pace. 12


Opportunamente Sabom si è anche preoccupato di inserire nelle sue ricerche la discriminante della paura della morte confrontando le risposte dei soggetti NDE con quelle di coloro che, pur essendo stati ad un passo dalla morte, non avevano esperito le percezioni visive e uditive proprie del fenomeno. Prendendo in esame un campione di rianimati da gravissima crisi, proporzionalmente composto sia dagli uni sia dagli altri, il cardiologo statunitense rilevò che tale paura: 1) non aumentava in alcun caso fra i soggetti NDE, mentre ciò avveniva per gli altri nella misura del 5%; 2) rimaneva inalterata soltanto nel 18% dei casi con NDE e addirittura nell’86% degli altri; 3) diminuiva vistosamente per l’81% di coloro che avevano vissuto l’esperienza e per il 2% soltanto di coloro che non l’avevano avuta. 13
L’esigenza della comparazione nasce dall’importanza di stabilire se la scomparsa, o perlomeno una forte attenuazione, del timore per l’evento mortale sia dovuto all’esperienza in quanto tale oppure se derivi, per dovuta ipotesi, dal sollievo immediato di essere sfuggiti ad una fine che sembrava ormai scontata. Come si vede, i dati emersi dal capillare lavoro di Sabom (che, per maggiore precisione, ha tra l’altro voluto escludere da questa tabella intervistati sottoposti ad interventi chirurgici) dimostrano chiaramente che la naturale paura sfuma quasi del tutto nei soggetti NDE, mentre permane nei rianimati che non hanno conosciuto il “viaggio fuori dalla coscienza”; ciò che dimostra, in definitiva, il valore “terapeutico” in questo senso dell’esperienza, oltretutto perdurante nel tempo e non momentaneo come, invece, è comprensibile che sia per il “gruppo di controllo”.
Non basta dunque sopravvivere ad un evento quasi mortale per convincersi che la morte non è un brutto buco nero con dentro chissà quante ancor più brutte sorprese, ma bisogna essersi imbattuti in essa, dolcemente o in colluttazione, averne riconosciuto la bonomia e, infine, dopo averla accettata come qualcosa di praticabile, aver rimandato l’appuntamento a data da destinarsi. Così si esprimono due pazienti con il ricercatore, che li ha più volte incontrati in anni successivi alla loro NDE:

La morte io l’ho veduta in faccia e ora non mi fa alcuna paura. Trapassare è un’esperienza naturale, fa parte del corso e dell’evolversi delle cose; morire avviene in modo semplice, non si deve aver paura… Questi convincimenti hanno mutato radicalmente ogni mio pensiero e l’intera mia vita.
Se fossi solo riemerso sano e salvo dallo scontro con il mio cuore impazzito, senza vivere ciò che mi è capitato in quei momenti, probabilmente non avrei potuto comprendere ciò che significhi davvero trovarsi a tu per tu con la morte.
Ho avuto la fortuna di immergermi in quella ineffabile esperienza; ne ho fatto tesoro, so che si tratta di qualcosa di estremamente vero e reale e sono felice che mi sia accaduto.

Non era mai successo che un paziente nelle mie condizioni (crisi renale ed emorragia cerebrale) fosse riuscito a sopravvivere. Dissero a mia moglie che non avrei superato la notte. A un tratto, la pressione mi salì in modo vertiginoso, l’emorragia peggiorò e il professore predisse che, quand’anche non fossi morto, sarei rimasto inebetito, privo delle funzioni mentali primarie. Ma avvenne il miracolo: dopo i sette giorni di coma profondo riemersi alla vita.
È stata proprio l’esperienza di premorte a infondermi una carica vitale incrollabile.
Da quel giorno ho imparato che la morte non è il peggiore dei mali, anzi non è affatto un male. Non la temo più nel modo più assoluto. Questa sicurezza interiore mi ha sostenuto in tutte le mie lotte per sopravvivere, e credo che proprio a essa si debba il fatto che sono ancora in vita. 14

Occorre osservare che l’effetto del superamento dell’ancestrale paura non ha nulla a che vedere con la fede nell’esistenza dell’aldilà, sia essa preesistente o acquisita successivamente. Tale superamento –lo abbiamo visto- si propone infatti come una qualità insita nell’esperienza, di cui beneficiano anche persone di impostazione totalmente laica ed altrettanto i protagonisti di una NDE senza caratteristiche idonee a rappresentare un mondo ultraterreno.
Non mancano tuttavia, in conseguenza, riflessioni che inducono a valutare l’eventualità di una qualche forma di sopravvivenza anche da parte di coloro che non ne avevano attitudine. Esemplari in proposito le affermazioni che seguono, tratte dall’indagine dei Fenwick, le quali parrebbero esprimere una nuova disponibilità nei confronti dell’”altrove”, presumibilmente indotta dall’aver vinto l’inquietudine per quell’avvenimento estremo che in ogni modo dovremo affrontare:

Ci potrebbe essere benissimo una “vita dopo la vita”, o potrebbe essere il modo in cui il cervello si spegne. In entrambi i casi la morte è qualcosa da aspettare con gioia, in qualunque momento arrivi.

Da quel giorno non ho mai temuto veramente la morte. Si aprono nuovi, meravigliosi orizzonti! Credo sia del tutto illogico pensare che questa vita sia tutto quello che abbiamo, e per molti, inoltre, sarebbe un pessimo affare. Come la vedo io, la mia esperienza suggerisce che ci potrebbe essere qualcosa di molto più significativo nell’aldilà. 15

Ma, che si creda o no di poter in qualche modo continuare a vivere, non temere più la morte significa soprattutto capovolgere il nostro rapporto con essa, trasformarla nella nostra mente da insopprimibile fatalità a logico evento cui offrire sereno consenso.
I soggetti NDE sembrano avercela fatta!
Non a parole ma nella concretezza dei fatti, c’è l’ha fatta questo veterano del Vietnam, che ha vissuto l’NDE sul campo di battaglia ed è tornato a casa mutilato in maniera impressionante. Di morti, lui, ne aveva visti tanti e, straziato nel corpo a soli 33 anni, qualche ragione di prendersela con la vita ce l’avrebbe avuta. Ma se neppure l’assuefazione agli orrori della guerra l’avevano piegato alla rassegnazione per la fine di tanti compagni, ciò che aveva visto nella propria morte aveva cambiato in lui la prospettiva della vita stessa, a suo avviso meritevoli di essere vissuta intensamente nonostante tutto ma considerando sempre che deve avere un termine:

Da quando ho avuto la ventura di passare attraverso quell’incredibile evento di morte apparente non vado più a un funerale, non mando più fiori o biglietti di condoglianze. Non dico più a parenti o ad amici del defunto che sono dispiaciuto e costernato. Quando vengo informato della morte di qualcuno, non mi rattristo, anzi sono felice. Perché invece di un funerale non si organizza una festa?
Nel mio testamento scriverò ben chiaro che non desidero sia celebrato un funerale o mi venga eretta una lapide. Voglio essere cremato, e che le mie ceneri siano disperse al vento. Il resto è solo ipocrisia e perdita di tempo.
Chi muore lascia questa vita per abbracciarne una migliore, piena di pace. È per questo che il pensiero di andarmene ormai non mi spaventa più. Non ho più paura di morire, sono convinto che tutto ciò che ci accade giorno dopo giorno nasconde un significato profondo che ci sfugge… Vivo, mi diverto, lavoro nel modo più intenso e completo possibile, perché so che da un momento all’altro il filo che mi lega alla vita si può spezzare in modo definitivo… 16

C’è dunque un messaggio grande in quello che ci raccontano i soggetti NDE, e sarebbe un peccato lasciarselo sfuggire.
La loro è un’esperienza che segna profondamente la vita, ma cambia anche nei confronti della morte, ormai soltanto un’eterna comune destinazione che, ci si voglia credere o no, loro sono comunque persuasi di aver sperimentato così lucidamente da sapere cosa li aspetta. Sono storie sempre diverse, come diverso uno dall’altro è ogni essere umano; sono percorsi talora assai complessi talaltra più scarni, come diritte o ricche di tornanti possono essere le strade che ci si trova a percorrere; sono grandi occasioni per guardarsi dentro e, secondo ogni proprio sentire, rimpiangere o provare rimorsi, meditare sul senso vero di questa vita o semplicemente rallegrarsi per la proroga ottenuta, guardare avanti o voltarsi indietro o addirittura restare fermi.
Ma sempre, quasi sempre, almeno nel 99,99% dei casi sono storie, strade e occasioni che abbattono quella spaventosa maschera e, a volto scoperto, la morte non fa più loro paura.

La signora insiste sul fatto che si è trattato per lei di un tipo di apprendimento travalicante la prassi intellettiva e razionale, ma per questo più incisivo e, sul suo attuale atteggiamento nei confronti della morte modificato a seguito delle conoscenze acquisite con tale lettura,
ha poi qualcosa da aggiungere:

Nel mio intimo ho sempre desiderato che la coscienza sopravvivesse dopo la morte corporea. Volevo che fosse vero, ma forse la mia fede non era abbastanza salda da farmi credere che lo fosse.
Attraverso le esperienze di premorte adesso ho avuto una conferma empirica di questo fatto, ma non arriverei a chiamarla una prova certa. Il problema è: questa convinzione sarà abbastanza salda da resistere al panico se, diciamo, un domani sapessi di avere una malattia fatale? Non lo so.
Riuscirebbe questo a consolarmi se perdessi una persona che amo? Penso –e credo perfino- che sarà così, ma non ne posso essere certa, perché ancora non ho affrontato simili situazioni.
Io credo proprio che dovremmo cominciare a pensare a queste cose prima che qualcosa di triste ci accada, prima di arrivare all’ultima ora o subire un lutto, per essere preparati nei momenti cruciali.
20

Giustamente l’intervistata mantiene un prudente dubbio sulla propria capacità di trasferire concretamente nel futuro, e al momento opportuno, quanto appreso ed è costretta a rimandare le sue certezze a quando il suo destino deciderà che le debba avere per esperienza diretta. Ma nelle sue dichiarazioni già afferma un vantaggio acquisito, quando dice dell’importanza di non lasciarsi trovare impreparati ad episodi di lutti che potrebbero capitarci o alla nostra “ultima ora” che senz’altro ci capiterà. Ovvero: sarebbe bene pensarci per tempo; cosa che, per puerile scaramanzia, non facciamo mai. Se a questa conclusione –come ci pare- è arrivata attraverso la conoscenza degli scritti su chi la morte l’avrebbe quasi abbracciata, non sembra eccessivo parlare di un eccellente risultato di tali letture.
Ma rimane la pratica, per noi esigenti mortali abituati a pretendere prove, assai più desiderabile d’ogni buon proponimento suggerito dalla logica teorica e, senza spostarci di un minimo dal tema, è Deborah Drumm che replica per noi. Neppure lei ha mai avuto una esperienza di premorte, anche lei si è appassionata alla letteratura sull’argomento ma, al contrario della lettrice svizzera, è purtroppo stata mossa da un interesse niente affatto casuale.
Pur essendo un’infermiera di professione, Deborah non aveva mai preso sul serio il fenomeno della premorte di cui ogni tanto sentiva parlare i colleghi. Ammalatasi di cancro al seno in maniera grave, fu sottoposta a mastectomia totale e a cure chemioterapiche, che l’avevano precipitata in uno stato di prostrazione dal quale non sembrava volersi risollevare; competente per mestiere sulla sua malattia, era terrorizzata per il doloroso presente e, ancor più, per gli eventuali sviluppi. Un’amica pensò di soccorrerla procurandole libri e articoli sulle NDE e relativi protagonisti, che lei divorò in brevissimo tempo, spingendosi poi a cercare altro materiale in tema e addirittura a contattare personalmente alcuni soggetti di cui aveva appreso lo straordinario vissuto.
Presto superato lo scetticismo iniziale, l’infermiera non faceva mistero di quanto tali informazioni le risultassero rassicuranti in ordine alla paura della morte che l’aveva assalita all’insorgere della malattia e, presi contatti con il Journal of Near-Death Studies, dalle sue pagine così scriveva a pochi mesi dall’operazione e dopo essersi rimessa in discreta salute:

Se il cancro dovesse tornare, sarei ancora scossa all’inizio, ma credo che la fase di adattamento sarebbe molto più facile. Quel terrore che mi impietriva e che mi ha ossessionato per i primi sei mesi di quest’anno, credo che non tornerà mai più.
La morte per me ora è diversa da come era un anno fa. Adesso, quando immagino l’ultimo momento della mia vita, vedo la Luce. Sento la pace, l’amore e la tranquillità
. 21

È un’affermazione rincuorante ma forse anche azzardata, che va ben oltre l’esito immediato della fantastica impressione insita in un idilliaco episodio di ritorno alla vita.
Non sarà irrilevante ribadire che Deborah non ha avuto esperienza diretta del fenomeno, ma ne ha egualmente assorbito l’effetto positivo attraverso le testimonianze di altri, racconti che nella sua situazione hanno agito da terapia della paura per la morte e dell’angosciosa attesa per nuove sofferenze. Viene così ampiamente compensato lo sforzo dei protagonisti dell’NDE quando, pur reticenti alla confidenza, si impongono il coraggio di esternarla: sanno, costoro, che non si può rimanere insensibili di fronte alla passione di simili ricordi, suppongono che il proprio propizio “imprevisto” potrebbe continuare ad essere di aiuto, si augurano che non ne vada perduto il confortante potenziale.
Ed, effettivamente, è così: “la speranza donata dalle NDE è contagiosa” dice Deborah, ed è ora la sua testimonianza di “non-soggetto NDE” a rimbalzare positivamente verso un numero infinito di persone che la potrebbero cogliere:

Quando queste storie vengono condivise con altri che hanno paura e soffrono, sembra che riescano a trasmettere anche a questi ultimi un senso di pace.
Spero (…) che gli psichiatri, i medici, le infermiere e tutto il personale che si occupa dei malati (…) considerino seriamente la possibilità di utilizzare i racconti delle NDE con le persone gravemente ammalate o sofferenti… (…).
Posso testimoniare la potenza illuminante e la forza conferita da questa “terapia”. IO SONO (maiuscole nell’originale, Ndr.) più forte, e più sicura di quanto ero prima della malattia, perché ho infine affrontato la mia paura della morte… le storie dei ritornati danno la pace alla mente e rinnovano il senso dello scopo, consentendo alla vita di proseguire.
Non sono più perseguitata dalla paura, ma mi piace sempre leggere queste storie. Mi rendono costantemente felice
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Ci piacerebbe chiudere con queste sue ultime consolatorie parole la vicenda di Deborah, donna provvidenzialmente incappata in storie di NDE e impegnatasi a testimoniare con generosità le proprie traversie, l’elaborazione personale di esse, le scelte indicative di una via d’uscita. Ma non possiamo farlo perché, alcuni mesi dopo, il redattore del Journal ricevette da lei una lettera nella quale si diceva della recrudescenza del male in termini irrimediabili, della consapevolezza dell’inutilità di ulteriori cure come dell’imminenza della sicura morte. Dunque le si presentava ancora l’avventura di passare dalla teoria alla pratica e, questa volta, era decisivo che la prova non si trasformasse invece in disavventura.
Ma non delude il gran finale quando, nel riferirsi alla sua precedente asserzione -“Quel terrore che mi impietriva e che mi ha ossessionato (… ) credo che non tornerà mai più”- e confermandola, Deborah motiva così le ragioni della sua lettera:

Vi scrivo per dirvi che le mie affermazioni si sono dimostrate vere… il fattore più importante responsabile della mia guarigione psichica è stato ancora una volta la lettura regolare delle storie degli stati di premorte… questi libri sono sempre vicini al mio letto.
Nelle sei settimane seguenti all’annuncio del ritorno del male, non è trascorso un solo giorno in cui non abbia letto o riletto alcuni dei racconti. Ancora adesso, quando comincio a sentire la paura, o cado nella depressione, il ripasso di queste storie è la mia prima linea di difesa…
In breve, credere agli insegnamenti delle NDE mi ha mantenuto in buono stato. Mi ha permesso di sentire che c’è uno scopo per tutto, compreso il mio male, e che io in qualche modo trarrò vantaggio dal significato di questa malattia.
(…) Vorrei che tutte le persone gravemente ammalate avessero la possibilità di studiare le NDE. Per varie ragioni, alcune potrebbero interrompere le letture poco dopo. Ma sono certa che molti troverebbero gran conforto.
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Una forza d’animo acquisita attraverso una partecipata lettura e conservata fino all’ultimo; e, al contempo, un gesto di grandezza nel voler condividere il suo piccolo grande “segreto”, antidoto alla paura, proprio affinché non rimanga tale.
Quale potere devono contenere i racconti dei “ritornati” se riescono a far dire ad un malato terminale frasi come: “quando comincio a sentir la paura, o cado nella depressione, il ripasso di queste storie è la mia prima linea di difesa…”?!; e ad affermare tanto è persona nella condizione di non aver più ragione di mentire, neppure a se stessa! Quale energia nascondono se hanno facoltà di far credere a chi sta morendo che, se c’è uno scopo per tutto, ce n’’è anche uno per il suo male e fargli pensare “io in qualche modo trarrò vantaggio dal significato di questa malattia”?! Quale impeto trasformatore racchiudono se sono capaci di riportare la calma là dove è umano che si perda ed ottenere la “guarigione psichica” da un morbo di cui più o meno tutti siamo affetti fin dalla nascita”?!.
Un potere, un’energia, un impeto che rimangono con modesti successi allo studio di scienze mediche e umanistiche, ma che pur si evidenziano in tutta la loro efficacia nell’esperienza di Deborah.
Una simile risultanza sembrerebbe fatta apposta per gratificare l’orgoglio di chi certe storie le propone dalle pagine di un libro, ma se si pensa alla suddetta destinazione di una cronaca profondamente diversa da tutte le altre, alla gratificazione fa ombra un più marcato senso di responsabilità. “… Questi libri” –è stato fatto notare- “sono sempre vicini al mio letto”, come si parlasse di una specie di medicina che, si sa, non può combattere il male e tuttavia lenisce la pena per la sua conseguenza. Non c’è allora orgoglio che sia più forte del timore di non essere all’altezza del compito: scrivere speciali pezzi di vita altrui nella maniera giusta per arrivare al cuore di chi se ne può servire, usare le parole per conferire alla notizia quel preciso valore del suo contenuto, assemblare convenientemente espressioni spontanee dei protagonisti che possono essere tanto semplici quanto potenti. Far sì, insomma, che i vocaboli non escano solo dal dizionario mentre si dà forma letteraria ad un fatto che -non dobbiamo mai dimenticare- non può essere interpretato ma solo fedelmente registrato.
Chi fa ricerca nel campo dell’NDE non può permettersi la poesia, sebbene ne venga spesso tentato, ma gli è concesso almeno rilevare l’arte meravigliosa con cui i grandi poeti finiscono per conformarsi all’effetto più rilevante causato dal viaggio oltre la coscienza che ci viene narrato. Verso dopo verso, Vincenzo Cardarelli 24 immagina così la conclusione più bella, infusa dell’ottimismo che occorre alla vita ma che può allietare anche nella morte, con delicatezza gioiosa illustra una scena di accettazione fuori da ogni tenebroso pensiero, ed anche esalta il piacere di vivere in quegli ultimi minuti se si è capaci di farli valere di più:

Morire sì,
non essere aggrediti dalla morte.
Morire persuasi
Che un siffatto viaggio sia il migliore.
E in quell’ultimo istante essere allegri
Come quando si contano i minuti
Dell’orologio della stazione
E ognuno vale un secolo.
Poi che la morte è la sposa fedele
Che subentra all’amante traditrice,
non vogliamo riceverla da intrusa,
né fuggire con lei.

Un’idea, non solo poetica, che saprebbe dare scacco matto alla paura della morte se solo fossimo capaci di assimilarla nel cuore e nella mente per passare, senza traumi, dalla poesia alla prosa.

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(Estratto del III° capitolo di “La Luce e la Rinascita” di Fulvia Cariglia,
Edizioni Oscar Mondadori, 2009, Milano).