LA VITTORIA DELLA VITA NEI FENOMENI INTORNO ALLA MORTE
(29-05-07)
(RELAZIONE
DELLA D.SSA FULVIA CARIGLIA
AL CONVEGNO DI SAN MARINO SULLE NDE)
Non passa inosservato a chi si occupa di ricerche sulle NDE, e ne frequenta da anni gli ambienti, un ricorrente scivolare verso interpretazioni di carattere trascendentale, le prime a proporsi spontaneamente nell’ascoltare i racconti di un così insolito “viaggio” della coscienza, all’apparenza di certo le più consone a vestire di significato i vari passaggi della “storia”, ma soprattutto le più auspicabili -se vogliamo- per chiunque e, quindi, da chiamarsi in causa senza troppe resistenze quando spiegazioni meno romantiche non bastano a soddisfare appieno o sembrano tardare troppo in rapporto all’impegno profuso.
Ringraziamo la D.ssa Cariglia per
la sua gentile e tempestiva partecipazione alla "Pagina"
con questo interessante (e prudente!) articolo su NDE,
Premonizioni e Corrispondenze Incrociate che di certo arricchirà
il dibattito in atto sul Forum in merito allo studio della
fenomenologia di confine. Webmaster |
E non sempre si tratta di comuni lettori delle
approssimate informazioni sulla materia profuse dalla stampa generica, o
di appassionati d’occasione in un primo momento interessatisi
all’argomento per necessità consolatoria, ma si tratta talora anche di
studiosi in piena regola che, ovviamente in buona fede e peraltro forse
senza neppure accorgersene, tramutano in porta spalancata quel sempre
inconfessato spiraglio che finora è l’interpretazione spiritualista
dell’evento NDE. Il quale si verifica –conviene sempre ricordare-
near death (=vicino alla morte) appunto e non in death
(=nella morte), ovvero non in uno stato di morte nel senso clinico, che
sarebbe irreversibile, e pertanto giova riaffermare con chiarezza che se
i soggetti “tornano” è perché non sono mai “andati via” nel senso
compiuto dell’espressione.
Pur premesso e condiviso che qualsiasi pregiudiziale in fase di ricerca porrebbe il ricercatore su un versante anti-scientifico ancor prima di cominciare, impedito come sarebbe a distinguere l’esito più imprevedibile cui la ricerca stessa dovesse condurre, appare invece talvolta che il più imprevisto degli esiti –in questo caso una “sopravvivenza provata”- si imponga col tempo nella mentalità e nel comportamento di chi si dedica all’analisi dei fatti. Sorprende, per esempio, quando in relazioni o saggi pretenziosamente quasi/scientifici si nota un’esposizione estremamente suggestiva e l’uso di una terminologia quasi poetica, del tutto improprie rispetto a quello che dovrebbe essere il linguaggio tecnico del divulgatore culturale. Tradito fra le righe, spesso vi si legge un recondito accentuato possibilismo, se non proprio la convinzione, che l’NDE potrebbe davvero avere a che fare con un “luogo altro”; quel “luogo altro” di cui tutte le scienze del mondo non potrebbero mai garantirci l’esistenza eppure… eppure tutti i ragionamenti del mondo non riuscirebbero a metterci l’animo tanto in pace da impedirci di covare in fondo al cuore un rasserenante “non si sa mai….!”.
E’ umano, comprensibile, valido per tutti, ricercatori compresi. Anzi, forse, in particolare proprio per loro che, più di altri, sono sottoposti alla tentazione di credere oltre le evidenze di laboratorio giacché interagiscono continuamente con reperti troppo particolari, il soggetto e la sua testimonianza, perché possano ridurli a dato statistico senza provarne un disagio. D’altra parte l’ovvia eccezione, da opporre qui, per cui in ogni studio –e specialmente di questo genere- è d’obbligo la distinzione fra il momento dell’analisi obiettiva e quello dell’inclinazione personale si attaglia evidentemente meglio alla teoria piuttosto che alla pratica, ed è ardua impresa garantire in assoluto un giudizio del tutto svincolato dal proprio bagaglio di conoscenze e di credenze.
Non dimentichiamo che Raymond Moody, universalmente
conosciuto come il primo ad aver avuto il coraggio di descrivere senza
inibizioni un possibile itinerario oltre i confini dell’esistenza
terrena, oltre che lanciare una sfida a tutto il mondo accademico (che
peraltro la raccolse ampiamente), favorì a livello di massa
l’affermazione dell’idea che tante avventure speciali e così simili fra
loro, e per di più così coincidenti in taluni dettagli di carattere
celestiale, non potessero avere a che fare altro che con il mondo di
lassù. Eppure nel suo arcinoto e arcitradotto Life after life,
dedicato perlopiù all’aneddotica, l’ex-filosofo e poi laureato in
medicina si era premurato di precisare in introduzione: “Desidero
dichiarare subito che non intendo (…) provare l’esistenza di una
vita dopo la morte. Né ritengo che una ‘prova’ nel senso stretto del
termine sia attualmente possibile”.
Ora, noi non sappiamo se
l’avvertimento gli parve necessario per proteggere i lettori da
eccessive illusioni oppure se stesso da prevedibili accuse di fideista
sognatore, ma è certo che non mancarono presto buoni motivi per
lasciarci supporre che quelle sue poche ma fondamentali righe furono
ignorate dai più.
Correva l’anno 1975 e, in assenza di studi specifici, non stupisce se nell’immaginario collettivo trovasse spazio con facilità la “bella ipotesi” che i protagonisti di un caso di pre-morte sembravano suggerire.
Ho conosciuto personalmente Moody e, durante tre
giorni trascorsi insieme, mi sono fatto di lui l’idea che non fosse per
nulla interessato ad una maggior vendita dei suoi libri o un cachet
adeguato al suo altisonante nome, ma se mai che si fosse messo in testa
di sfruttare tutte le sue conoscenze per aiutare a non aver paura della
morte o ad accettarla come espressione della vita.
Parlava di NDE come
dell’oggetto del proprio amore, riconoscendo di non aver mai provato il
fenomeno ma di sentirlo come vissuto personale per quante volte gli era
stato raccontato; mi ha ricordato con dolcezza la sua “prima volta”, una
testimonianza raccolta nel 1965 che non avrebbe mai potuto dimenticare,
ma tenne a puntualizzare che aveva trovato tanta ricchezza in ognuna di
quelle che aveva registrato successivamente. Quando lo stuzzicavo sulla
sua interpretazione dell’origine del fenomeno, evadeva, generalizzava,
finiva con il consigliare diplomaticamente di lasciare ai soggetti
protagonisti il diritto di farsi un’opinione propria; e, se insistevo
ancora affinché mi esponesse comunque la sua di opinione in merito,
ritornava con passione alle testimonianze raccolte, dalle quali –diceva-
emergeva sempre la difficoltà di tradurre in parole comuni l’emozione
provata. Non si sbilanciava più di tanto, insomma, ma si vedeva bene che
parlava di quell’oscuro oggetto del suo studio come se egli stesso lo
stesse vivendo in quel momento, con il trasporto e la partecipazione di
chi ama tanto quello che fa da disinteressarsi a tirarne le somme.
E
tale era quando, pur confessando di avere un’idea di aldilà assai vaga,
sorridendo, amabilmente mi disse: “Anche se ho tanto ascoltato e
tanto trascritto, quando sarà il mio turno, sarà comunque una
grande sorpresa per me!” In quel commentatore corretto c’era molto
dell’uomo, di un uomo affascinato dai misteri dell’essere che una
fortunata carriera, occasionalmente, aveva trasformato per lui in un
lavoro..
Arrivai a comprendere totalmente il suo rapimento
intellettuale ed anche le sue ritrosie solo ad alcuni anni di distanza,
quando, dopo un itinerario di esperienze sebbene assai più modesto del
suo, giunse tuttavia il giorno in cui Raymond Moody firmò la prefazione
al mio libro sulle NDE.
Forse anche lui aveva capito me, nel mio
entusiasmo e in tutti i miei dubbi o, forse, fu semplicemente un po’ più
generoso di quanto meritassi, ma emergeva chiaro dal suo breve scritto
il rilievo che aggiudicava all’azzardo di aver trattato di quello che
lui definisce il “fenomeno spirituale probabilmente più importante
del nostro tempo e destinato ad assumere sempre maggior significato”
e ad averlo fatto mantenendomi decorosamente sul filo del rasoio della
divulgatrice attenta alle regole scientifiche ma rispettosa del pensiero
concettuale e filosofico.
Entusiasmo mai sopito il mio, ma anche dubbi mai messi a tacere.
Per circa trent’anni l’attenzione di tutti noi, fra grandi e piccoli studiosi e/o interessati, è stata catalizzata dallo specifico fenomeno di uno stato modificato di coscienza che, in prossimità della morte, appare capace di esperire facoltà uditive e visive fuor d’ogni norma. Abbiamo preso atto dell’incontrovertibile realtà di tali esperienze, ci siamo dati un gran daffare per imparare a studiarle o, perlomeno, ad individuarne le tracce nei soggetti che per definizione erano in grado di fornircele. Abbiamo elaborato teorie e ipotesi in ordine alla dinamica del loro esplicarsi e alle loro origini, ne abbiamo tratto statistiche e abbiamo operato controlli incrociati. Vi abbiamo meditato sopra a lungo, da soli o a gruppi, e tutti insieme in qualche modo abbiamo anche tratto qualche dato interessante e tentato qualche conclusione. Ne abbiamo cercato senza sosta il significato, che di certo possiede ogni cosa che esiste, e qualcuno fra noi è forse anche riuscito, per parte sua e secondo un proprio metodo di valutazione, a definirne il “senso”.
E’ stato un grosso impegno e nessuno può disconoscerlo ma, a ben guardare, tutto questo ha però avuto un limite, un punto debole del quale non sempre e non tutti ci siamo accorti.
Così facendo -mi sembra oggi di poter osservare- abbiamo in un certo senso “isolato” il fenomeno, quasi rendendolo un nucleo autonomo, privo di altro riferimento che se stesso, finendo con il ridurre al minimo l’apporto di contributi nuovi e, quindi, probabilmente precludendoci l’individuazione di sintomi interessanti ai risultati dell’indagine. Nell’enorme lavoro di confronto fra NDE ed NDE che finora è stato fatto abbiamo raccolto un’apprezzabile quantità di dati utili a differenziarle fra loro in rapporto alla cultura o alla struttura psicologica di chi le ha vissute, al tipo di crisi fisica che le ha prodotte, alla spontaneità o all’induzione di esse, ed altro ancora, ma potrebbe esserci sfuggito qualcosa di molto importante se non abbiamo aperto abbastanza quest’operazione di parallelismi ad altre situazioni e contesti coerentemente collegabili.
Negli ultimi tempi, tuttavia, il panorama del materiale di ricerca pare stia ampliandosi. Il punto di osservazione ha assunto una maggior prospettiva e anche altri tipi di esperienze non ordinarie vengono introdotte sotto la lente dei nostri studi: strane quanto le NDE, quanto le NDE eccezionalmente episodiche, come le NDE caratterizzate dall’intrattenere un particolare rapporto con l’evento-morte. Sono esperienze di vario genere e di differente rilevanza, che senz’altro comportano un significato ineguale per coloro che le vivono e per chi le apprende indirettamente, che si presentano in svariate forme e si collocano in più di un’angolazione nei confronti della morte, potendo precederla, avvenire simultaneamente ad essa, oppure seguirla. E’ in questa sequenza che ne tratteremo, non prima di annotare che ci limiteremo a richiamare l’attenzione su quella parte di esse che sembrano indicare una possibile vittoria della vita sulla morte, insieme di parole che si addice a qualunque avvenimento ci costringa a riflettere sul valore della vita e sulla naturalità della morte quale atto di essa
Il pensiero corre in primo luogo ai cosiddetti casi di “precognizione tutelare” (Vedi ns. articolo-NdR), quelli che paiono annunciare un rischio imminente e, al contempo, sembrano offrire, suggerendola od indicandola in qualche modo, l’opportunità di evitarlo. La casistica in proposito è infinita, tratta dalla letteratura e dalla vita comune. A partire dalle vecchie storie di chi si salvò dal disastro del Titanic per essere stato stranamente “consigliato” (ad esempio in sogno) di rinunciare alla storica crociera di inaugurazione del panfilo fino alle recenti testimonianze degli “scampati all’11 settembre”, gente che quella tragica mattina era stata “avvertita” in maniera del tutto inconsueta (come da una suggestione improvvisa, un sentore inspiegabile, una serie di casualità che sembravano ordite a bella posta per non farli uscire di casa) di non andare a lavorare negli uffici delle Twin Towers e neppure a fare shopping in quella zona della grande mela newyorkese; cui si aggiunga l’enorme e non censibile aneddotica di milioni di persone che, per aver avuto indefinibili “segnali” di un’imminente sciagura ben precisa, ne sono stati stimolati ad escogitare la maniera di sottrarvisi.
Valga, a simbolo di tale ricorrente evento extrasensoriale –che tuttavia un conclamato raziocinio pretende di attribuire a semplice “caso”, statisticamente possibile nell’ampiezza delle eventualità umane- l’indiscusso “avvertimento straordinario” provvidenzialmente donato, con un anticipo di diciassette anni, da un vecchio cinese, di professione indovino, al giornalista-scrittore Tiziano Terzani. “Attento! –gli aveva detto- Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell’anno non volare. Non volare mai.” Notissima la vicenda: Terzani, nonostante i lunghi anni trascorsi, non se ne dimenticò e, nonostante le sue impegnative corrispondenze dall’Asia per il settimanale tedesco Der Spiegel, vi si attenne; treni, autobus, traghetti, taxi e mezzi di fortuna sostituirono per un anno l’aereo negli spostamenti di un uomo costretto a fare la spola fra l’Oriente e l’Europa e, da quell’osservatorio scomodo ma ricco di incontri e tramonti, nacque il best-seller intitolato, appunto, “Un indovino mi disse”. Ma non propriamente per questo egli dovette ritenere davvero provvidenziale la precognizione ricevuta “per puro caso” in “uno stantio appartamentino di Hong Kong” giacché, fra le tante cose meravigliose di quell’anno da viandante d’altri tempi, dovette annotare anche: “Il 20 marzo 1993 un elicottero delle Nazioni Unite in Cambogia si è abbattuto con 15 giornalisti a bordo. Fra di loro c’era il collega tedesco che aveva preso il mio posto”.
Davvero un “caso”? Può darsi, ma non mi sentirei di
giurarlo e, comunque, di certo mi porrei seriamente il problema della
realtà, nonché della qualità, di “quel” caso se fossi nei panni di un
Terzani sopravvissuto per essere stato (curiosamente) sostituito
nell’incarico, di un passeggero del Titanic che ha disdetto l’ambita
prenotazione per aver avuto nel sonno la visione di centinaia di persone
annegate, della centralinista delle Torri Gemelle che quella mattina ha
deciso –senza saperselo neppure spiegare- di prendere un giorno di ferie
per stirare e andare dal pedicure.
Ciò che se ne può dedurre è allora
che la tempestività del “caso”, se mai, sta nella pregnanza
dell’esperienza –sia questa la parola di un pittoresco aruspice, la
visione di un sogno o l’improvvisa idea di sottrarsi alle ore di ufficio-,
un’esperienza vissuta così intensamente da mettere in atto un meccanismo
che preserva la vita a scapito della morte. Ciò che probabilmente
avviene a coloro che, nel pieno di un affascinante “tragitto” NDE,
sentono tuttavia così profondamente il desiderio di riappropriarsi della
vita da sceglierla anche se tanto meno paradisiaca della luce in fondo
al tunnel.
Di importanza non inferiore, in questo contesto, sono a mio avviso le esperienze “supernormali collettive” che si producono in perfetta coincidenza con il decesso di qualcuno: la morte non è qui annunciata perché la si eviti, ma “comunicata” in quanto imminente o avvenuta.
Citiamo, a scopo illustrativo, l’eventualità dell’apparizione di un morente/defunto ad una persona lontana, accadimento sovente testimoniato nel corso della storia. Va da sé che, quando il percipiente è una singola persona, non si può sfuggire al sospetto che si tratti di una casuale corrispondenza emotiva o dell’effetto di una suggestione, elementi che si esauriscono all’interno della persona stessa e non aggiungono alcun significato all’impressione soggettiva ma, ove il fenomeno si presenti a più persone, conviene andare oltre la semplice ipotesi illusoria. Se infatti più individui, contemporaneamente o in successione, percepiscono il medesimo “messaggio” di morte imminente o appena avvenuta, tale ipotesi diventa subito molto meno forte ed emerge con maggiore evidenza la possibilità che si sia trattato davvero della manifestazione di “qualcosa di esterno” a tutti i percipienti e che “quel qualcosa” andrebbe a proporsi per sua precisa iniziativa alla loro attenzione.
Rafforza questa deduzione il fatto che l’esperienza
genericamente definita “apparizionale” può essere anche diversa da un
percipiente all’altro e, tuttavia, imprimere nella mente di ognuno il
medesimo tipo di comunicazione. Mentre ad uno di essi può palesarsi la
figura delineata del morente/defunto, un altro può sentirne accanto la
presenza ed esserne pienamente certo benché non veda sensorialmente
alcunché di riferimento, un altro ancora potrebbe udire un insolito
rumore o vedere una luce di cui non può esservi una fonte nota in quel
preciso momento, e così via.
E tutti questi “attimi” di sensazioni e
certezze, vissuti da persone diverse in ambienti diversi, a distanza fra
loro e dal “soggetto” che poi risulta averle accomunate come destinatari
della propria volontà di affermarsi “vivo”, sono inequivocabilmente le
singole tessere isolate di un unico mosaico. Sta a noi decidere di
liquidarlo come un grafico di casualità un po’ più complesso di altri, o
riflettere sul fatto che invece potrebbe contenere un’indicazione di
notevole importanza ai fini di approfondire quel poco a noi già noto
dell’immensità della coscienza.
Ma la vita ancor di più sembra vincere sulla morte quando, trascorso un certo tempo dall’evento luttuoso, alcuni percipienti esperiscono l’apparizione del defunto, questa volta però unitamente; un’esperienza collettiva oggettivamente piuttosto rara, come del resto quelle summenzionate, che insieme raggiungono -è stato calcolato- un’incidenza di non più del 5-8% sul totale delle apparizioni testimoniate. Abbastanza frequenti sono, al contrario, manifestazioni apparizionali in varie forme percepite singolarmente e a distanza temporale dalla scomparsa, ma per obiettività sono da tenersi in considerazione solo se contenenti “segnali” piuttosto chiari della loro provenienza extranormale. Non c’è una risposta univoca alla domanda su quali possono essere questi “segnali”, che in genere riflettono i dettagli specifici di ogni singolo caso (ad esempio un gesto riconosciuto come usuale, un riferimento a oggetti o personaggi coinvolti, l’indicazione di un avvenimento ignorato, ecc.), tuttavia si può tentare di definire qualche parametro generale.
Stante la numerosa casistica riportata, il primo di questi potrebbe riguardare il dato temporale della “ricorrenza”. Sembra infatti alquanto significativa una forma di apparizione che intervenga alla scadenza esatta di sei mesi, uno o due o cinque anni dalla morte della persona cui si riferisce, e in particolar modo assume importanza quando la data era sconosciuta al percipiente né avrebbe potuto conoscerla attraverso normali canali di apprendimento. Per lo stesso motivo una seconda indicazione sufficientemente pregnante può essere una minuzia propria dell’apparizione che risulta nuova e ignota al percipiente ma corrisponde a una particolarità reale del defunto. Citati più volte nella letteratura in argomento, si riporta brevemente il caso di una figura apparizionale con una mano ferita, che il percipiente trovò incongruente ma che risultò essersi prodotta in realtà sistemando la salma nella bara; similmente una figura extracorporea apparve dopo molto tempo la morte indossando un fazzoletto bianco nel taschino, che il percipiente “sapeva” non esservi ma che, a insaputa di tutti, la madre del defunto aveva inserito solo poco prima che chiudessero il feretro. Forse sarà bene ribadire ulteriormente, a questo punto della mia esposizione, che non stiamo cercando le “prove della sopravvivenza”, una contraddizione in termini di per sé, giacché non v’è trascendente se non v’è fede né la fede ha bisogno di prova alcuna per convincersi di non sbagliare. Altrettanto è però corretto sottolineare che gli argomenti finora riportati, per quanto doverosamente scremati da un’altissima percentuale di errore e da una ancor più alta di fideismo, risultano infine talmente radicati e quantitativamente presenti nella storia dell’uomo, da indurci tutt’al più all’ammissione della nostra ignoranza nel non saperli decodificare adeguatamente, ma tale persistenza non ci permette di negarne del tutto il verificarsi. E tanto più questo inciso si rende necessario ora, visto che sto per proporre un’ultima, fra le più discutibili, categoria di esperienze che potrebbero supportare l’idea enunciata per cui la vita finisce con l’essere vittoriosa sulla morte.
Mi riferisco al caso medianico di interesse
esclusivamente storico, in quanto non ci risulta che si sia mai più
riprodotto in questi ultimi ottant’anni:
le cosiddette corrispondenze
incrociate”(Vedi ns.
articolo-NdR).
Si tratta di messaggi provenienti in apparenza da un’unica
“entità”, pronunciati a pezzi e frammenti scoordinati da mediums che non
sono in contatto fra loro; cosicché ogni singolo messaggio è privo di
senso compiuto mentre, quando viene ricomposto accanto a tutti gli
altri, quindi opportunamente interpretati nell’insieme, si palesa un
significato plausibile e controllabile in riferimento a “chi” l’avrebbe
artatamente “sparso” in tale maniera. Quando, attraverso una serie di
casi e coincidenze che davvero –per ironizzare- fanno pensare a cose
dell’altro mondo, e soltanto in ultimo, si svela il senso del
messaggio, la logica deduttiva indicherebbe una volontà cosciente,
diversa da quella dei medium, che ha costruito il “gioco” ed è riuscito
a portarlo a termine.
Sono consapevole delle obiezioni che si possono opporre a tali episodi, da me esposti –ripeto- non quali prove della teoria della sopravvivenza ma a completamento di un quadro di esperienze di cui le NDE fanno parte quando si vuole attribuir loro un significato di carattere trascendentale. Del resto un minimo di spregiudicatezza culturale occorre, e conviene averla, se ci si vuole smuovere da una situazione di stallo, e noi avevamo appunto cominciato col dire che, intravedendo nelle NDE una possibile testimonianza dell’aldilà, molti apprezzabili studiosi sfiorano l’appagamento e quasi smettono di apportare un contributo alla ricerca. A beneficio di costoro ho dunque rispolverato esperienze che attengono ai meandri oscuri della coscienza quanto, e forse più, delle NDE, fatti e talora misfatti che sono stati il cavallo di battaglia della parapsicologia fra gli anni Ottanta dell’Ottocento e i primi tre decenni del Novecento, ma che oggi potrebbero essere di nuovo oggetto di studi alla luce delle maggiori risorse critiche, concettuali e strumentali che abbiamo.
Fulvia Cariglia
Laureatasi in sociologia con una tesi su “La percezione sociale della parapsicologia”, svolge da molti anni attività giornalistica e di ricerca sugli effetti socio-psicologici dell’ipotesi paranormale della fenomenologia insolita. Da tempo impegnata nello studio delle NDE, è autrice di numerosi articoli e saggi in argomento, nonché di “Territori oltre la vita”, testo divulgativo sulle ricerche e l’aneddotica di tali esperienze con la presentazione di Raymond Moody ed edito da Mondadori. Fra gli altri libri pubblicati per Mondadori, ricordiamo “Echi d’altrove”, saggio su la storia e le cronache dei tentativi di contatto con l’aldilà. Attualmente è impegnata nella redazione di un testo che tratta degli effetti postumi delle NDE sul soggetto e della loro ricaduta sociale.
Chi fosse interessato a ricevere gli atti, può richiedercelo per e-mail e lo metteremo in contatto con la D.ssa Cariglia